giovedì 22 giugno 2017

Torneranno gli angeli

La prima casa, quella nella quale sono cresciuta e ho vissuto per 24 anni, era in centro storico, a Firenze. Via Laura 20. Al piano terra di un palazzo antico che il nonno Mario mi diceva risalisse al '700, i cui spessi muri erano fatti anche di pietre d'Arno con le quali, durante lavori di emergenza o miglioria, a volte non poteva niente neanche il martello pneumatico.
Il nonno amava molto quella casa che da affittuario era riuscito ad acquistare devastata e mal ridotta dopo l'alluvione del '66. Ci aveva lavorato tanto. Ma era SUA.
L'ho molto amata anche io nonostante avesse degli evidenti diffetti: soffitti altissimi, un freddo becco di inverno, impossibile da scaldare, infissi costosi da mantenere e sostituire, umidità che ogni tanto veniva fuori, piuttosto buia. 
Ma per me era una casa bellissima, aveva tutto quello che serviva. E probabilmente quel tutto non erano cose.
La cosa che mi affascinava di quella casa erano i suoi 4 corridoi che si susseguivano ad angolo retto, uno dopo l'altro.
In fondo, uno dentro l'altro, il tinello, il cucinotto e un ultimo stanzino da cui si accedeva al giardino.
Quello è sempre stato il centro della casa, sopratutto nelle ore del giorno e in particolare per me, per ovvi motivi, nei mesi estivi.
Il nonno si alzava ogni mattina alle 6; dalla sua stanza, vicina alla porta di ingresso, senza accendere una luce, ma munito di torcia a batteria, percorreva i 4 corridoi, andava in cucina, accendeva il suo transitor, caricava la napoletana prima, la moka poi e ascoltando il gr, le previsioni e gli avvisi ai naviganti, la cosa che adoravo in assoluto di più, aspettava il caffè che poi portava agli adulti. A letto. Da un certo punto in poi, anche a me.
Dopo ognuno di noi si preparava secondo incastri rodati e perfetti, avvicendandosi fra i due bagni, uno solo dei quali dotato di wc, e la cucina per fare colazione.
Io ero l'ultima perché quella che meno di tutti si sarebbe allontanata da casa, visto che il liceo Michelangelo era nella strada parallela a via Laura.
Tinello e cucinotto non erano belli, neanche comodi, non avevano mobili moderni che il nonno, restauratore da giovanotto, aborriva. Ma quel mobilio aveva carattere.
Aveva un'impronta. La sua. Alcuni pezzi li aveva realizzati lui, come un tavolino rettangolare, non troppo grande, a due ripiani, posizionato sotto la finestra del tinello che si apriva sul giardino. Non ci si appoggiava niente di che: un centro, scelto dalla nonna e sopra la radio mangianastri acquistata da mio padre che ha sempre avuto una passione per la tecnologia e la musica.
Ogni mattina negli anni del ginnasio e del liceo andavo in cucina, la nonna mi faceva trovare pronta la mia colazione, cioè ai tempi una tazza di caffellatte.
Con quella fra le mani, mi mettevo davanti al tavolino, azionavo il mangianastri occupato perennemente dalla mia cassetta, facevo andare avanti o indietro, fino a veder comparire il numerino giusto nel contatore girevole, alzavo il volume al massimo e iniziavo a sorseggiare il caffellatte. A volte cantavo a squarciagola. Ma più spesso osservavo fuori, guardavo il cielo, le finestre d i vicini, le piante in giardino, a volte aprivo la finestra. Ripensavo alla fatica del pomeriggio prima per studiare tutto, mi ricaricavo per affrontare le ore di scuole, i compiti in classe, le interrogazioni.
Entravo in contatto con me stessa.
E mi ascoltavo.
È una cosa che ho sempre fatto, allora in modo totalmente istintivo.
E quella era la mia canzone.
Non so dire perché.
Mi dava un senso di libertà, di forza, di speranza, di apertura (angeli, allegria, deltaplano, arcipelaghi, mari senza limiti) e poi quell'immagine che io costruivo ogni mattina nella testa, con lo sguardo perso fuori..."Torneranno gli angeli
tra i lenzuoli tiepidi
mi amerai
come fosse un' avventura
giocheremo a illuderci
svaniranno gli incubi
sorridimi
vivi e non aver paura"
Questi versi mi intrigavano un casino, ma non li cantavo mai ad alta voce perché i nonni erano lì e mi sembravano troppo spinti per essere pronunciati in loro presenza...
Ah, i nonni...io lo so che mi hanno adorata e che sapevano tutto di me. Tutto. Anche se io non lo sapevo. Non sfuggiva niente di me ai loro occhi, al loro cuore, agli orecchi, niente. Nemmeno la cosa più piccola e banale.
Se infatti, per un qualsiasi motivo un giorno non facevo partire il nastro il nonno subito mi diceva: "Ciuci, niente angeli stamattina?"
Il nonno è stato l'uomo della mia vita. So che mio padre non si offende se lo dico, perché lo ha avuto come babbo. E quindi sa cosa intendo.
Io sono fatta di quel suo amore, del modo che aveva di amarmi e di accompagnarmi e di proteggermi e di incoraggiarmi e di insegnarmi le cose e di farmi osservare la realtà e di farmi sentire capace di tutto. L'ho capito quando mi dette quel pezzo di legno, il martello e la scatolina dei chiodi. Puoi piantarci tutti quelli che vuoi, mi disse, puoi usare la pialla, le tenaglie, fare i buchi con i succhielli (cavolo quanto mi piacevano).
Basta che mi chiedi aiuto se non riesci o non sai come si fa. La frase della vita.
Lo so, lo standard è alto.
E forse nessun altro mi ha mai amata così.
Ma io quell'amore lo sento ancora dentro di me, intatto, come allora, come quando ero una bambina eccitata, orgogliosa, al settimo cielo, appesa alla sua mano, con le gambette svelte per stare dietro al suo gagliardissimo passo, in giro per le vie della nostra amata Firenze.
"Non guardare per terra, Ciuci, guarda sempre in alto, sennò, tu ti perdi i' meglio!!"





...Torneranno gli angeli
a sfiorarci l'anima
l'allegria
sapra' tenerci per la mano...

I miei angeli non hanno bisogno di ritornare, perché non se ne sono mai andati!


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